Ci siamo fermati a guardare le stelle

Avevo visto los niños de la calle in Messico, Guatemala, paesi dove il problema c’era già da anni. In Nicaragua invece praticamente non esisteva. Il governo sandinista garantiva l’educazione, la sanità e la canasta basica, cioè il minimo alimentare. I pochi bambini che si vedevano nelle strade erano quasi tutti orfani di guerra. Quindi non sono stata colpita dai bambini ma da quei tre bambini. Erano molto piccoli e dormivano in un cerchione di camion. Non erano diversi dagli altri bambini, non ho parlato con loro, non è successo niente. Non so perché proprio quei tre hanno fatto scattare la molla , la rabbia. Una rabbia così grande che ho deciso in quel momento esatto di lasciare tutto e lavorare con loro. E questa rabbia dura sempre, perché da allora la situazione è tremendamente peggiorata e ogni giorno ne vedi di tutti i colori.
In realtà poi ci sono tornata solo nel ’91. Per tre anni ho dovuto lottare in Italia per ottenere il prepensionamento. Alla fine ce l’ho fatta e sono ripartita. Sola, senza sapere bene come organizzarmi, senza nessun appoggio. Ho iniziato a lavorare nei barrios più miserabili, come il Dimitrof, dove non entra neppure la polizia, e negli asientamientos, gli insediamenti dove la gente vive in baracche fatiscenti, costruite con pochi pezzi di lamiera messi insieme o con teli di plastica neri. Gente che veniva da tutto il Nicaragua. Vedevo gli aspetti più brutali del postsandinismo. Era già passato l’ordine di ridare ai proprietari le terre che la rivoluzione aveva confiscato e ridistribuito ai campesinos. Così i grandi latifondisti scappati a Miami ritornavano e si riprendevano le terre. Quando la polizia non riusciva a mandare via i contadini, i proprietari arrivavano con le loro squadre armate, li cacciavano con la forza, loro scappavano a Managua e formavano gli asientamientos.
E’ dal problema delle terre che nascono i primi bambini di strada. Le famiglie andavano in città, non trovavano niente, gli uomini, tutti compas o contras, erano pochi. Se non erano morti erano scappati o spartiti nelle frontiere, mettici in più il machismo nica, fatto sta che la maggior parte delle donne si ritrovavano sole. Giravano tutta la giornata per strada alla ricerca di un lavoro, lasciando i bambini soli in queste capanne. Mi capitava a volte di sbirciare tra le assi e i buchi della plastica. I bambini erano legati con catene per paura che scappassero, alcuni quasi senza capelli perché per la fame e la paura se li strappavano.
Che faccio? Continuavo a chiedermi. Ho scritto lettere e lettere, qualche amico ha cominciato ad appoggiarmi un pò ma più di tanto non potevano fare, gli organismi potenti non mi conoscevano e avevano progetti grandiosi di strade, ospedali, acquedotti, quando parlavo di bambini mi guardavano come se fossi un pò matta. In quei primi tempi vivevo in una pensione. Pensavo, potrei aprire un comedor, perché questi bambini hanno bisogno soprattutto di mangiare, sono denutriti, alcuni a cinque, sei anni non sapevano quasi camminare per la denutrizione. Cosa potevo fare? Sapevo che non potevo scrivere progetti , aspettare, avevano bisogno subito. In questa confusione di sentimenti ho cercato una casetta e l’ho trovata a Ciudad Jardin, dietro il Mercato Oriental.
E’ stato lì che ho fatto per la prima volta la conoscenza della pega, la colla per scarpe che i bambini sniffano per farsi passare la fame e la paura. Sono stati due bambini a farmela conoscere, Harling e Hormiga. Avevano sei, sette anni, erano magri, piccoli. E’ successo così. Nel mio patio verso la strada c’era un albero di guayaba, un frutto buonissimo quando è maturo. Li vidi che raccoglievano da terra, sulla strada, i frutti caduti, ormai marci. Mi sono avvicinata e gli ho chiesto perché li mangiassero. Mi hanno risposto che avevano fame. Allora li ho invitati dentro, gli ho dato del pane e burro. Mi hanno detto che erano huelepega e che vivevano al mercato Oriental, alla Chiesa del Calvario. Così è cominciata la storia dei Quinchos, con due bambini che non sono mai entrati nel Progetto.
Il giorno dopo sono andata a cercarli, loro non c’erano ma ce n’erano tanti altri, e prostitute e alcoolizzati. L’inizio è stato tragico, rifiutavano l’adulto, erano scappati dalla violenza della famiglia e ritrovavano nella strada altrettanta violenza da parte degli adulti l’accettazione è venuta un pò alla volta, stando con loro e soprattutto per alcuni fatti specifici, come averli difesi dalla polizia che li picchiava o, peggio, gli puntava una pistola alla testa o in bocca. Iniziai a parlare con le venditrici del mercato perché gli dessero un pò da mangiare ma cominciò a essermi chiaro a quel punto che per fare davvero qualcosa era necessaria una casa. Conobbi padre Jesùs Arguete, un basco, parroco della chiesa di santo Domingo, che mi prestò una casa della chiesa, terremotata, un mezzo rudere, senza acqua, luce e solo per il giorno, fino alle quatto del pomeriggio, per dargli da mangiare.
Arrivavano centinaia di bambini e io potevo dare da mangiare solo a una trentina, quarantina, e così arrivata a quel numero dovevo chiudere la porta. Noi stavamo al secondo piano della casa, aveva finestre grandissime, senza vetri, un giorno è arrivata una pandilla, una banda, e ha cominciato a tirarci pietre. Tutti i piccoli spaventati si sono gettati a terra nel centro della stanza. Sbirciando dalla finestra ho intuito chi era il capo, il Piri e Pichete il suo luogotenente, con una cresta bionda che sembrava un punk berlinese. Scendo, esco da dietro da una finestra e vado dal Piri. Tu sei il capo, gli ho detto. Lui si è gonfiato tutto. Perché ci tirate le pietre? Gli ho chiesto. Perché abbiamo fame. Ma non ho niente, vieni a vedere, che te lo dimostro. Il Piri schiocca le dita, tutti smettono di tirare le pietre, lui e Pichete salgono, gli faccio vedere la pentola di riso vuota.Qui c’è da mangiare, dice.
Come? E’ allora che ho imparato la famosa frase, ’aquì està la raspa’. Cioè la crosta che rimane sul fondo, tipo polenta. Il Piri si è raschiato tutto il fondo. Me lo porto via, ha detto. La dividi con Pichete? Gli ho chiesto. No, la divido con tutti. Verrò tutti i giorni a prendere la raspa. Va bene, dammi la mano, parola di jefe che non ci attacchi più. Veniva tutti i giorni, zitto, da gran capo e se ne andava. Lì avevamo un tetto, riuscivamo a tirare avanti in qualche modo ma diventava sempre più necessario trovare una casa. La comunità della chiesa di padre Arguete a un certo punto gli chiese di mandarci via, dicevano che i bambini, mentre loro erano a messa, avevano rubato i tappi dei serbatoi delle auto.
Facciamo un incontro, li ascoltiamo, io ero lì con tutti i bambini, gli diciamo quanto poco cristiani ci sembrano, ci permettono di provare ancora un pò ma era evidente che non poteva durare. In più, lì i bambini non potevano stare dopo le quattro del pomeriggio e invece molto spesso arrivavano e io non c’ero, ero a casa mia. Una volta la polizia al Mercado ha cominciato a picchiarli e loro erano scappati alla casa e li avevano picchiati anche lì. Ho conosciuto un italiano quasi ottantenne che aveva una pizzeria e che ci ha prestato un pezzo di terra dove abbiamo costruito una casettina. Minima, ma almeno potevamo stare anche a dormire. Mi diventava intanto evidente che per allontanare i bambini dalla pega e dalla strada bisognava portarli via da Managua, farli vivere liberi, in una vera casa, senza i vicini che ogni giorno si lamentano.Nelle vacanze di Natale sono venuta in Italia e sono andata alla Comunità di Fiesole di Padre Balducci, con cui avevo avuto contatto per lettera. Loro, insieme a un gruppo che intanto si era formato a Cagliari, sono stati quelli che mi hanno dato i primi soldi. Quando sono tornata, con questi soldi ho comprato metà della Finca di San Marcos. Il 7 Febbraio del 1993, in una notte luminosissima, con tutti i ragazzini caricati sulla camionetta, siamo arrivati alla Finca. Mi ricordo che prima di arrivare ci siamo fermati a guardare le stelle. Avevamo cinque coperte regalate dalla Croce Rossa, le pentole e basta. E siamo ancora lì. Scarica il pdf.

Cortesia: Intervista a Zelnda Roccia di Francesca Caminoli per ’Una città’